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Mai come oggi si parla di finanza sostenibile. Anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, è ormai un concetto diffuso per le tante declinazioni e ricadute che ha sulle decisioni dei risparmiatori e sulle strategie delle aziende, sempre più complesse e globalizzate.
Ad evidenziarne l’importanza in ottica futura sono i dati diffusi da Global Sustainable Investment Alliance, l’organizzazione che riunisce le principali realtà internazionali impegnate in tema di investimenti sostenibili.
Secondo l’ultima indagine, nel 2020 erano impegnati in investimenti sostenibili oltre 35.000 miliardi di dollari, una cifra che evidenzia un incremento del 54% rispetto al 2016. Nello stesso periodo, i flussi netti attratti dai fondi sostenibili hanno raggiunto quota 50 miliardi di dollari, più del doppio rispetto al 2019.
I dati sono incoraggianti perché, oltre a fotografare una crescita costante, infondono ottimismo sul ruolo che potrà avere la finanza sostenibile nel sostegno agli obiettivi di neutralità climatica fissati dall’ONU. La finanza responsabile, sperano in molti, potrà contribuire in modo concreto alla nascita di un modello di produzione e di sviluppo davvero sostenibile, senza sprechi e senza impatti sull’ambiente.
Eppure, sono tre i fattori che ancora rendono difficile il decollo della finanza sostenibile.
1) Manca una definizione chiara di “rischio climatico”
Come ha sottolineato il Governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco nel suo intervento al Convegno Annuale dell’Associazione Europea del Diritto Bancario e Finanziario, «per mobilitare una tale quantità di risorse occorre il pieno coinvolgimento del sistema finanziario, oggi frenato dalla scarsa qualità delle informazioni sui rischi legati al clima, che risulta decisamente inferiore a quella dei dati di natura finanziaria, quali quelli che riguardano i rischi di credito e di mercato».
A questo riguardo utile citare la stima dell’Agenzia internazionale dell’energia che auspica, entro il 2030, una massa tre volte superiore a quella attuale a livello globale per gli investimenti in tecnologie pulite. Serviranno circa 4.000 miliardi di dollari per supportare gli obiettivi ONU.
2) Manca uno standard comune di “rischio sostenibile”
Mentre per il rischio di credito vi è una comune definizione da parte degli investitori riconducibile ai meriti di credito assegnati alle imprese dalle diverse agenzie di rating, diverso è il discorso per quanto riguarda il rischio di sostenibilità. In questo caso, nota sempre il Governatore, «l’esistenza di definizioni molto diverse, che vanno da quelle che considerano solo gli effetti finanziari nel breve termine a quelle che contemplano anche l’impatto a più lungo termine, si riflette in una correlazione bassa tra i cosiddetti punteggi ESG (Environmental, Social, Governance) assegnati dalle diverse agenzie specializzate».
3) Va costruito un sistema che premia chi non fa “greenwashing”
Dall’analisi di Visco emerge la necessità di poter disporre di maggiore quantità e qualità delle informazioni sulla sostenibilità. Le informazioni, infatti, sono fondamentali per infondere fiducia nel mercato e per fare in modo che siano solo «le imprese con le migliori pratiche di sostenibilità» a «beneficiare di condizioni di finanziamento più favorevoli». «Quelle che invece tarderanno ad adeguarsi, conclude Banca d’Italia, saranno penalizzate fino a che non intraprenderanno azioni più credibili o ambiziose per la transizione ecologica».
Sembra insomma finito il tempo del greenwashing, cioè della comunicazione disinvolta e ingannevole delle presunte iniziative sostenibili. Da ora in poi si deve fare sul serio.